Se c’è violenza, la mediazione familiare non s’ha da fare

13/02/2019 - Silvia Belloni - BLOG

I veti al matrimonio di manzoniana memoria lasciano il passo alla scontata (oggi) e garantita (per fortuna) libertà delle parti di unirsi tra loro, nelle molteplici forme previste e tutelate. In relazione alla mediazione familiare esistono invece - e giustamente - precisi divieti in alcuni tassativi casi, nella eventualità che il nucleo si sciolga.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il nocciolo del divieto risieda nella distinzione tra violenza e conflitto nelle relazioni. È ormai pacifico che i concetti non vadano confusi (e ciò non solo al fine di stabilire correttamente i limiti alla mediazione familiare). Nelle ipotesi di conflitto le parti agiscono in situazioni paritarie di forza (anche se caratterizzate da reciproci atteggiamenti violenti) mentre ricorre la violenza (e dunque opera il divieto di mediazione) quando una parte sia sottomessa all’altra dal punto di vista fisico, psicologico o economico.

Con riferimento alla legislazione sovranazionale, la Convenzione di Istanbul “sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” (adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011, ratificata in Italia il 27 giugno 2013 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014 a seguito del raggiungimento del prescritto numero di dieci ratifiche) introduce all’art. 48 il divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie. La disposizione prescrive al primo comma che le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare il ricorso obbligatorio ai metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione. 

Particolarmente illuminante in materia è anche l’art. 31 della Convenzione, che prevede l’adozione di misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia o di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza rientranti nel campo di applicazione della Convenzione. Di conseguenza, la stessa norma introduce il principio di garanzia in forza del quale l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non può compromettere i diritti e la sicurezza della vittima e dei bambini.

Chiaro è l’intento del legislatore sovranazionale di tutelare vittime e minori dall’esposizione ad ulteriori episodi di violenza, nel corso di giudizi attinenti il diritto di famiglia o nei percorsi conciliativi o di mediazione.

Giova sottolineare inoltre come la tutela accordata ai bambini, siano essi vittime dirette dell’abusante/maltrattante, vittime di violenza assistita o “bambini e basta”, valorizzi giustamente la particolare attenzione che i legislatori nazionali devono in ogni caso prestare ai minori, nel loro superiore interesse.

In contemporanea con la Convenzione di Istanbul, l’Unione europea ha elaborato la cosiddetta “direttiva Vittime” (2012/29/UE sulle “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, recepita in parte in Italia dal D.Lgs. 212/2015) che afferma e amplia gli stessi concetti, e introduce principi di riferimento utili per le nostre riflessioni.

A favore dei minori la direttiva sancisce una chiara presunzione di vulnerabilità (art. 22.4). Il reato è violazione dei diritti individuali delle vittime, che devono essere trattate «in maniera rispettosa, sensibile e professionale», non discriminatoria, e devono altresì «essere protette dalla vittimizzazione secondaria» (considerando 9 della direttiva). Tra le “protezioni” accordate dalla direttiva possiamo dunque ritenere incluso, alla luce dei riferimenti sopra ricordati, anche il divieto di mediazione nelle ipotesi di condotte violente a danno appunto di una vittima vulnerabile.

Il D.Lgs. 212/2015, di attuazione della direttiva, ha introdotto nel codice di rito penale l’art. 90 quater che annovera tra le vittime vulnerabili anche la persona offesa che sia «affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del reato»: e dunque sicuramente la vittima di violenza di genere (per la quale, lo si ribadisce, la mediazione è interdetta).

Proprio in riferimento a queste vittime vulnerabili si è recentemente pronunciata la Suprema Corte, affermando che «non è inconsueto riscontrare nella prassi, soprattutto in contesti familiari consolidati, quella situazione emotiva che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva, che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un’altra e la predispone, nonostante le sofferenze cagionate dal partner, ad accettare la prosecuzione della relazione. Accettazione che ragionevolmente si connette da un lato ad un “amore malato” tale da creare una controspinta dovuta a dinamiche di dipendenza; dall’altro lato ad una situazione determinata proprio dalla coartazione. I ripensamenti della persona offesa possono allora trovare spiegazione in dinamiche di dipendenza, nonché dalla soggezione psicologica determinata proprio dall’agire maltrattante dell’imputato” (Cassazione Sez. VI Pen. 16.11.2018 n. 51950).

Particolarmente apprezzabile è la “sensibilità” con la quale la Cassazione recepisce orientamenti di merito ormai consolidati e principi desunti anche da materie diverse dal diritto, ma affini al nostro sapere e necessarie per comprendere i fenomeni connessi alla violenza di genere.

La stessa sensibilità è opportuno venga attivata da avvocati, magistrati e operatori del diritto anche nel delicato compito di stabilire in quali ipotesi si debba evitare il ricorso alla mediazione familiare (al di là e oltre i casi incontrovertibili di condotte fisicamente violente e maltrattanti o abusanti), nel rispetto delle vittime vulnerabili e in considerazione “dell’amore malato” che le lega all’autore di reato (Cassazione docet).

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